Succede che certi luoghi si portano dietro un’ombra. Non la vedi, ma la senti. Sta ferma, appostata in un angolo, pronta a saltare fuori appena calano le luci. E quando succede… ti accorgi che non è mai sparita, semplicemente era in silenzio.
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Tutte le storia ambientate in Sicilia
Certe volte il sangue non si lava. Nemmeno col tempo
C’è un castello, in Sicilia, piantato su una rupe come una ferita aperta. Dentro ci abita una storia. E questa storia parla di sangue, di onore, di tradimento. Ma soprattutto… di un fantasma che non ha mai smesso di cercare giustizia.
Alle falde del monte Saraceno, tra le pieghe di una terra che conosce più il silenzio dei morti che la pace dei vivi, sorge il castello di Mussomeli. È lì da secoli, inchiodato su un colle roccioso, e sembra scrutarti. Non è solo pietra e storia, quel castello. È memoria. Una memoria che sanguina.
La leggenda – ma prima era cronaca, e solo dopo è diventata leggenda – parla di Laura Lanza, baronessa di Carini. Una donna. Una vittima. O forse solo una colpa da cancellare.
Era il Cinquecento, 1543. Un tempo in cui l’onore valeva più della vita. Figlia di un potente, Cesare Lanza, Laura venne data in sposa, a quattordici anni, a un uomo che non aveva scelto: don Vincenzo La Grua Talamanca, barone di Carini. Un matrimonio come tanti. Una ragazza, una firma, un patto tra famiglie. Poi più nulla.
Il barone viveva a Palermo, trenta chilometri da Carini. Ma nel XVI secolo, trenta chilometri sono un abisso. E Laura resta sola. Giovane, bella, chiusa in un castello che assomiglia più a una prigione che a una dimora. E quando arriva Ludovico Vernagallo, il cugino del marito, giovane cavaliere del feudo di Montelepre… qualcosa si spezza.
O forse si accende. Una passione che sfugge alle regole, ai doveri, agli occhi. Per anni i due si incontrano, in silenzio, nell’ombra. Nessuno dice niente. Ma in Sicilia, nel 1563, nessuna vergogna resta nascosta a lungo. E certe colpe, si sa, vanno lavate nel sangue.
La denuncia parte da un frate. Forse il confessore di Laura, forse no. Ma le voci fanno in fretta a farsi lama. Il padre, Cesare Lanza, e il marito, don Vincenzo, non esitano.
È la notte del 4 dicembre. Buia, fredda. Laura e Ludovico vengono sorpresi. Insieme. Nell’intimità della camera. Bastano pochi colpi d’archibugio. Il tempo di un urlo, di un lampo di paura, e tutto è finito. Chi ha sparato davvero, nessuno lo sa. Il padre? Il marito? Poco importa. Le regole del delitto d’onore furono rispettate: colti in flagrante, nella casa del marito, uccisi entrambi.
Poi, il silenzio.
Nessuna indagine. Nessuna giustizia. Solo una copertura veloce, implacabile. Il delitto viene seppellito insieme ai corpi. Il barone si risposa. Della baronessa, la gente viene a sapere soltanto una cosa: è morta. Basta così.
Ma c’è qualcosa che non si cancella.
C’è una stanza, nell’ala occidentale del castello. Lì, dove fu consumato il delitto. E sulla parete, ancora oggi, c’è un’impronta. Una mano insanguinata, impressa nella pietra. La leggenda vuole che sia la sua. La baronessa. Colpita a morte, si sarebbe aggrappata al muro prima di cadere. Quell’impronta... torna. Ogni anno, la notte del 4 dicembre.
E non è tutto.
Ci sono testimonianze. Sussurri. Qualcuno dice di aver visto un’ombra aggirarsi per le stanze del castello. Una donna, vestita con abiti del Rinascimento. Il volto pallido. Lo sguardo perso. La baronessa.
Dicono che cerchi suo padre. Che vaghi nelle notti fredde, lasciando dietro di sé raffiche di vento e ombre. Perché non c’è pace, quando non c’è giustizia. Perché non c’è riposo, quando nessuno ha pianto su una tomba.
E la tomba di Laura Lanza, ancora oggi, non esiste.
Questa è la sua storia. Una storia che non è più solo leggenda. È un sussurro che si insinua tra le mura. È un passo leggero che non trova requie.
È un’eco… di sangue.
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