In Italia ogni angolo nasconde una storia. Non importa quanto piccolo o remoto sia un luogo: c'è sempre qualcosa di strano, misterioso, a volte inspiegabile, che aspetta solo di essere raccontato. Spesso sono i paesi meno conosciuti a custodire i segreti più affascinanti, le leggende più oscure, come Laconi, un piccolo borgo nel cuore della Sardegna. Tra le sue colline c'è una roccia che non è come le altre. Gli abitanti raccontano una storia che sembra uscita direttamente da un'altra epoca. Una storia di amore, dolore e mistero, che affonda le sue radici nella leggenda. Questa è la storia della Regina di Pietra, proprio il tipo di storia che ci piace raccontare.
La Sardegna era terra di misteri ben prima che la storia cominciasse a scriverne le cronache, tra le sue vallate e colline sorgeva il villaggio di Iddocca, un luogo piccolo e nascosto, ma benedetto dalla presenza di una sovrana amata e rispettata. La Regina Iddocca non era una donna comune: era forte come una quercia, saggia come le rocce che punteggiavano la sua terra, e con un cuore che batteva all’unisono con quello del suo popolo.
Iddocca aveva una figlia, una ragazza dai capelli neri come la notte e dagli occhi color del cielo dopo la pioggia, era il suo orgoglio, la sua eredità vivente, il riflesso di tutto ciò che di buono sperava per il futuro.
Un giorno, i sacerdoti del villaggio giunsero al cospetto della Regina: “Madre e guida,” dissero, “le divinità ci chiedono un tributo: un nuraghe che si levi al cielo come un ponte tra uomini e dèi, ma che sia anche fortezza, riparo per il nostro popolo nei giorni di pericolo.”
Iddocca ascoltò e annuì. Non era donna da sottrarsi al volere delle divinità, né da ignorare i bisogni della sua gente, così diede l’ordine: gli uomini avrebbero scavato, levigato pietre, costruito torri che sfidavano il tempo e lei stessa si mise al lavoro, trascinando massi e guidando il progetto con il fervore di chi sapeva che stava creando non solo un edificio, ma un simbolo per la sua comunità.
Ma il destino non lascia mai che tutto scorra tranquillo, perché mentre i lavori erano in pieno svolgimento, un cavaliere giunse al villaggio, il suo volto era cupo, e le parole che portava pesanti come piombo: “Mia regina,” disse inginocchiandosi, “le coste dell’isola sono state invase. Gli stranieri hanno saccheggiato i villaggi costieri e ora si dirigono verso l’entroterra, vengono verso di noi.”
Il villaggio cadde nel silenzio. Tutti guardavano la Regina, cercando nei suoi occhi una risposta, una speranza e lei si raddrizzò, la schiena dritta come una lancia, ma dentro il suo cuore si agitava una tempesta. Come poteva difendere il suo popolo e, allo stesso tempo, proteggere sua figlia, la sua unica luce?
Fu proprio la principessa a rompere il silenzio.
“Madre,” disse, con una voce che tradiva la sua giovinezza, “lasciami andare. Porterò notizie sugli invasori, scoprirò chi sono e quali sono le loro intenzioni. Così potremo prepararci.”
Iddocca si rifiutò categoricamente. “Non posso permettere che tu rischi la vita. Sei tutto ciò che ho.” Ma la principessa non si lasciò dissuadere. “Se non lo faccio io, chi allora? Tu ci hai insegnato che il bene del popolo viene prima di tutto, anche prima della paura.”
Alla fine, la Regina cedette, ma con il cuore pesante come la pietra che stava erigendo, la guardò partire all’alba, una piccola figura a cavallo che si perdeva nell’orizzonte, e pregò che le divinità la riportassero indietro sana e salva.
I giorni passarono lenti, scanditi dal rumore delle pietre che venivano scolpite e posizionate, la Regina attendeva, ogni giorno scrutando l’orizzonte.
E poi arrivò il momento che aveva temuto più di ogni altro.
Un altro messaggero, questa volta vestito di nero, le sue mani stringevano le redini di un cavallo stanco, e il suo volto era pallido, come se ogni parola che stava per dire gli costasse un pezzo di anima:
“Mia Regina,” disse “la principessa… è caduta. Gli invasori l’hanno scoperta e uccisa.”
Ci fu un istante di silenzio che sembrò eterno, poi, la Regina urlò.
Un urlo che non era umano, ma una cosa primordiale, selvaggia, come se l’intera isola avesse preso voce attraverso di lei, si accasciò a terra, stringendo il cuore che sembrava volerle esplodere nel petto, poi si alzò, e cominciò a fare l’unica cosa che poteva fare: distruggere.
Con una forza che sembrava impossibile per un essere umano, cominciò a lanciare le pietre del nuraghe, una dopo l’altra, le scagliava lontano, come se volesse scagliare via il suo dolore, il suo odio, la sua disperazione, le pietre si conficcavano nella terra, creando un cerchio frastagliato intorno a lei.
E mentre lanciava, il suo corpo cominciò a cambiare: la pelle diventava grigia, dura, le lacrime si seccavano, lasciando solchi come fiumi su una montagna e, quando l’ultima pietra toccò terra, non rimaneva più nulla della Regina Iddocca, solo una grande roccia, scura e solitaria, al centro del villaggio.
Si dice che quella roccia esista ancora, a Laconi, si dice che, durante le notti più fredde, si possa sentire un lamento provenire dalla pietra, un canto di dolore che parla di una madre che non ha mai smesso di piangere per la sua perdita.
Forse è solo il vento, o forse è la Regina Iddocca, che ci ricorda quanto possa essere profondo il dolore umano.
E quanto sia eterno.
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